IL REQUIEM DI LLOYD WEBBER CONQUISTA VERONA


 


Può una Messa da Requiem contenere un singolo pop in vetta alle classifiche? Si può uscirne canticchiando melodie come da un musical pop, e ricevere l’esecuzione urletti da stadio e l’entusiasmo di un debutto assoluto a quasi quarant’anni dalla prima esecuzione?
Tutto normale quando la firma è quella di Andrew Lloyd Webber. Re Mida del musical, cordialmente odiato da critici e colleghi quanto adorato dalle folle, EGOT (ossia vincitore di un Emmy, di 3 Grammy tra cui uno proprio per questo Requiem come Miglior composizione classica contemporanea, di un Oscar e di ben 7 Tony) personaggio televisivo ‘household name’, e compositore dalla cultura sterminata (basta analizzare alcuni dei suoi tanti pastiche per scoprire che può passare da Mozart ai Beatles, da Puccini alla dodecafonia senza fare un plissé) plurimiliardario che si può permettere di chiudere il suo ultimo (in)successo Cinderella con ben due milioni di perdite.
Valeva la pena di aspettarli questi 40 anni per quanto abbiamo ascoltato a Verona lo scorso 19 aprile quando il Teatro Filarmonico ha ospitato la prima assoluta del “Requiem” del Lord del musical, affiancato a un’intensa esecuzione del poema sinfonico L’Isola dei morti in la minore op. 29 di Sergej Rachmaninov. 


L’abbinamento al genio russo concede finalmente all’autore di Phantom of the opera, Evita e Cats quel riconoscimento del mondo musicale accademico che un po’ di spocchia e molta invidia gli hanno finora ingiustamente negato, all’insegna della comoda divisione classista tra musica di serie A e B, con lo stigma dei grandi incassi che marchia chi ha successo con l’ipocrita etichetta di “commerciale”, quasi come se a Mozart o Puccini desse fastidio la popolarità delle loro opere presso il grande pubblico.

Ma pochi sanno che un riconoscimento gli venne tributato in tempi non sospetti da un altro Maestro russo, Dmitri Shostakovich, che recatosi a vedere il suo Jesus Christ Superstar, ne venne talmente rapito da tornare la sera seguente e mormorare “Come avrei voluto scriverlo io..”

Ma Lord Andrew non si cura troppo di accreditarsi, anche perché le sue carte in regola, le sue patenti di legittimità compositiva sono visibili a tutti coloro che aprono senza pregiudizi un suo spartito. 

La partitura che l’Orchestra e Coro della Fondazione Arena di Verona ha presentato lo scorso venerdì 19 aprile è il biglietto da visita di un compositore di altissimo livello, che non sfigura affatto accanto a autori più blasonati e universalmente accettati dalla classica mainstream.

Dispiegando il suo talento teatrale, il compositore presenta subito i personaggi del suo ‘dramma morale’, sfruttando tutte le potenzialità del primo movimento composto da “Requiem & Kyrie”: le voci bianche esprimono tutta l’innocenza del sentimento religioso, depurato dal senso di colpa di cui si fa portatore il coro maschile, mentre l’austerità marmorea del soprano sottolinea l’inaccessibilità del perdono divino nei confronti del peccatore. 

Armonie e melodie creano un insieme potente, difficilmente assimilabile a uno stile preciso, segno di una sensibilità e una impressionante padronanza del mezzo sinfonico. La tavolozza si fa ancora più varia, e l’andamento ancora più cangiante e dinamico nel successivo “Dies irae... rex tremendae”, che potrebbe benissimo essere inscenato sul palcoscenico, tante sono le suggestioni visive e coreografiche, con punte di rara intensità, come nel “Liber scriptus proferetur”, in cui l’impianto vocale classico si accompagna a timbriche e ritmiche esotiche, o nelle dissonanze del “Rex trеmendæ majestatis”, prima affidato al coro e alla tagliente asprezza dei fiati, poi di nuovo alla dolcezza delle voci bianche che lo abbinano al tema ricorrente del “Requiem aeternam”.

Se l’intenso “Recordare” ci restituisce la potenza vocale ieratica della brava soprano Gilda Fiume, il successivo “Ingemisco” ci fa godere del duttile fascino dell’impasto tenorile di Enea Scala, per farci infine apprezzare la qualità del coro nel dolente “Lacrymosa”, concluso da un neo-verdiano “Confutatis”.

E’ come un finale primo atto, e il secondo si apre con l’”Offertorium” sospeso in un limbo di pace sottolineata dalle voci quasi a cappella, poi squassata dai fiati del “De poenis inferni” che sfociano in un cacofonico assaggio di un tema poi sviluppato nell’Hosanna, a preparare la soavità del punto più alto di tutta la partitura, l’estatico “Sed signifer sanctus Michael”.

Echi orientaleggianti risuonano in “Hostias et preces”, con i fiati a cesellare preziosi arabeschi, in un gioca di sponda con l’adorante “Sanctus”, con gli strumenti ancora una volta silenti a disvelare l’intervallo armonico che distanzia le voci bianche dal coro maschile, così come l’umano dal divino.


Veniamo alla parte più nota ed ‘estrapolata’ dell’opera. L’ “Hosanna”, già eseguito - e in quella occasione “mashappato” con l’Hosanna di Jesus Christ Superstar - alla Royal Albert Hall per il 50esimo compleanno di Lloyd Webber, si presenta con un’enunciazione del tema da parte del tenore, ripreso poi dal coro con polifonie barocche. Quando entrano piano e batteria passiamo senza soluzione di continuità e senza avvertire forzature dal classico al pop, a dimostrazione che il “crossover” non suona kitsch quando si possiede il giusto bagaglio culturale. Il tema – o refrain – ora è sempre lo stesso, ma arredato in diverse fogge armonico-stilistiche: corale, solista, con risposte vocali e strumentali, in diversi ritmi e tonalità. Impossibile non andare con l’orecchio ai tanti musical di Lord Andrew, i cui echi tornano del resto in tutta la partitura, e impossibile non resistere alla tentazione di unirsi agli Hosanna, talmente vivido, orecchiabile e trascinante è l’insieme di melodia e orchestrazione in questo vero e proprio show stopper. 

Ma la vera hit di cui sopra è il “Pie Jesu“. La struttura è quella di una ballad pop, in cui la dolcezza melodica affidata per la prima volta al soprano segna la riconciliazione tra umano e divino, tra innocenza e colpa, tra vita e morte. Anche il coro abbandona ogni affanno e si scioglie nell’Agnus Dei, che trascende il mortale in mistico e la disperazione non in speranza, ma in una salvezza quasi certa. 

E qui entra la vicenda privata di Lloyd Webber, che ha intinto queste note nel lutto della morte del padre, mancato nel 1982, tre anni prima del debutto del Requiem. E allo stile compositivo del padre, raffinato compositore egli stesso prima di dedicarsi a tempo pieno all’insegnamento per poter mantenere la famiglia, è ispirata la partitura. Basta ascoltare il bel cd “Invocation”, omaggio prodotto dal figlio, specie gli estratti da opere sacre: è anche un’occasione per riscoprire un artista vissuto all’ombra del più celebre pargolo, ma degno di attenzione.

Concludono l’opera l’etereo “Lux Aeterna”, e il dinamico Libera Me, concluso da un drammatico solo di organo seguito dall’ipnotica ripetizione della parola ‘perpetua’ da parte della voce bianca solista. Qui vale la pena spendere due parole sulla performance del giovanissimo Lorenzo Pigozzo, che se la cava brillantemente alle prese con una partitura affatto semplice, dimostrando un timbro cristallino e rara precisione e impressionante disinvoltura.


Ryan McAdams dirige con piglio e rispetto filologico un’orchestra impeccabile, senza forzare la mano nei tempi e le dinamiche, rispettando e valorizzando ogni sfumatura della creazione lloydwebberiana. Del resto la versione discografica di riferimento era diretta da un certo Lorin Maazel, mentre i solisti si dovevano confrontare col precedente di Plácido Domingo e Sarah Brightman, seconda moglie del compositore e musa ispiratrice non solo di quest’opera ma anche del Phantom: troppo rischioso – per fortuna – tentare una esecuzione che ne stravolgesse il modello.

Ci auguriamo che il mondo accademico, spronato da questa lodevole ‘prima’ al Filarmonico, riscopra sempre più il mondo del musical, aprendo enti lirici e sale da concerto ai grandi compositori di Broadway e West End. Sarebbe un bel modo di svecchiare la classica e nobilitare il teatro musicale moderno, che così ‘leggero’, come si è visto col Requiem di Lloyd Webber, non è.  

Franco Travaglio



Commenti

Post popolari in questo blog

UNA FRESCA DODICESIMA NOTTE SUL PRATO INGLESE TRA BURLE E INTRIGHI