Matteo Forte: "Vi presento la Stage 2.0"
MILANO - Matteo Forte, amministratore delegato di Stage Italia, illustra lo
sviluppo della strategia aziendale del colosso mondiale del live entertainment, fondato dall’olandese
Joop van den Ende; e, tra indiscutibili successi – con qualche errore commesso
- e nuovi progetti, espone il suo punto
di vista (di operatore privato) sul sistema di finanziamento pubblico alla
cultura nel nostro Paese.
Matteo Forte, AD Stage Entertainment Italia |
Ci racconti come Stage Entertainment ha iniziato la sua avventura in
Italia.
Nel 2007 abbiamo rilevato il
Teatro Nazionale di Milano, iniziando i lavori di ristrutturazione, con
l’obiettivo di importare in Italia il modello esistente negli altri paesi
europei: musical che prevedessero grandi investimenti a livello produttivo e il
tentativo di collaudare in Italia la lunga tenitura, ovvero la permanenza nei
nostri teatri di uno stesso spettacolo per l’intera stagione. Abbiamo iniziato
con La Bella e la Bestia, nel 2009, lo spettacolo è andato molto bene a livello
commerciale: sono stati venduti oltre 300 mila biglietti, con un incasso
superiore ai sedici milioni di euro.
Tuttavia, i costi di gestione dello spettacolo risultavano più alti di
questo incasso straordinario; abbiamo dunque provato a spostare la produzione,
nel 2010, da Milano a Roma, per essere presenti sui due principali mercati di
riferimento italiani e poi per poter “spalmare” i costi di allestimento dello
spettacolo su due stagioni. Ci siamo così resi conto che Roma, a differenza di
Milano, era un mercato molto meno ricettivo, rispetto al musical di qualità: il
pubblico romano è molto più affezionato agli interpreti e a spettacoli legati
alla tradizione della città.
Questi primi due anni sono stati
indicativi del fatto che la “cultura del musical” in Italia andasse dovesse
essere largamente sviluppata.
L’anno successivo, spostando
Mamma Mia! da Milano a Roma, ci siamo accorti che il risultato era peggiorato rispetto
a La Bella e La Bestia, e abbiamo preso la decisione drastica di concentrare
tutte le attività su Milano. Al termine dei quattro mesi di tenitura de La
febbre del sabato sera, decidiamo di cambiare completamente il nostro modello
di business: produrre allestimenti di alta qualità, senza spendere dieci volte
quello che spende un produttore italiano medio, ma magari solo il doppio o tre
volte tanto. Abbiamo iniziato a utilizzare il teatro anche in altro modo,
ospitando altri spettacoli oltre alle nostre produzioni e cercando uno sponsor
che volesse essere visibile sul mercato e, d’altra parte, ci aiutasse in
termini economici: la visibilità che Barclays ha avuto all’interno del Teatro
Nazionale ha aperto la strada a molte altre aziende che ci hanno chiesto
spontaneamente di poter essere visibili all’interno di questo luogo.
Questo “nuovo” modello di
business viene utilizzato nei teatri Stage Entertainment di tutto il mondo?
No. Tant’è che la nostra
multinazionale è sempre stata concentrata sulle attività di produzione e
vendita degli spettacoli. Questo fino a luglio 2015, quando Stage Entertainment
è stata acquistata per il 60% da un fondo d’investimento. Il restante 40% è
ancora nelle mani di Joop Van Den Ende, fondatore e presidente, la cui
“missione personale” era quella di realizzare spettacoli “top quality, senza
“contaminarli” con nessun altro marchio, rendendo i teatri luoghi davvero
speciali.
Devo dire che l’entrata del fondo
d’investimento è stata – da un punto di vista organizzativo – davvero efficace,
perché le persone che ci lavorano sono chiaramente molto orientate al profitto e
alla strategia aziendale, un po’ meno legate alla parte creativa.
Il modello Stage attualmente
presente in Italia (produzioni più piccole, con una tenitura massima di quattro
mesi; l’utilizzo del teatro come luogo per le aziende nel quale comunicare; un
dipartimento dedicato a eventi aziendali non convenzionali) funziona, tanto da
rappresentare il punto di riferimento a livello internazionale per tutte quelle
attività di sponsorizzazione e che sono”altro” rispetto alle competenze più
specificamente teatrali. Stiamo cercando di convertire alcuni dei nostri teatri
nel mondo su questo modello.
Cosa nello specifico ha funzionato meno negli anni scorsi, tanto da
indurre Stage Italia a cambiare strategia?
L’errore che non abbiamo
riconosciuto di aver fatto nel corso dei primi tre anni è stato quello di
investire troppi soldi negli spettacoli. Io ho visto quest’anno diverse
produzioni ben fatte, l’ultima è Jersey Boys. Una produzione realizzata
evidentemente con un budget che, a confronto con quello de La Bella e la
Bestia, è molto più basso. Eppure si tratta di un buon titolo, prodotto in
maniera ottimale. L’errore di Stage, dunque, è stato quello di doversi
confrontare con un mercato che produce a basso costo, avendo lo stesso bacino
di riferimento, ma con un punto di rientro dell’investimento che è molto più
alto rispetto a chiunque altro.
Ci tengo a dire che Stage
Entertainment non fa niente di particolarmente innovativo o geniale: facciamo
quello che nelle aziende viene fatto regolarmente, ogni giorno. Probabilmente
quello che facciamo di diverso da altri operatori è mettere insieme competenze
che provengono da realtà aziendali, coniugandole con il mondo del teatro e
della cultura. Il risultato è che il Barclays Nazionale è un teatro che non
riceve finanziamenti pubblici, mantenendo comunque il proprio utile, e forse si
tratta dell’unico caso in Italia.
Qual è la sua opinione in qualità di manager su quanto ha appena
affermato?
Il modello dei finanziamenti
dovrebbe essere completamente rivoluzionato, perché oggi il Fus premia aziende
poco virtuose, che non riescono ad arrivare al breakeven dei costi e li ripiana
non per arrivare a un profitto, bensì a un pareggio nelle spese. Un sistema,
dunque, che non incentiva per nulla l’iniziativa imprenditoriale che il
produttore o il singolo teatro dovrebbero avere. Il teatro è (anche) un’azienda
e i conti devono tornare a prescindere dal fatto che il Governo li ripiani.
Se fai l’imprenditore, i soldi te
li devi cercare, e non è facile trovarli: se però sei stimolato dal fatto che
non solo devi pagare bollette, dipendenti e quant’altro, ma magari anche
generare un profitto dalla tua attività, allora ti ingegni – e noi italiani
siamo bravissimi a farlo – per trovare il modo di riuscire ad avere
sponsorizzazioni. Lo Stato, attraverso il Fus, invece ti dice: se tu mi
dimostri che non ce la fai, allora io ti do quello che ti serve. Che modo è di
incentivare il merito, questo?
La vedo raggiante per i progetti dei prossimi mesi. Allora parliamo di
questo nuovo allestimento di Footloose…
La scelta del titolo è scaturita
dalle indagini (survey) che noi
compiamo sulla nostra base-clienti. Footloose è risultato primo su dieci titoli
che noi abbiamo profondamente scandagliato, dopo averli proposti al nostro
pubblico. L’ultimo titolo che abbiamo scelto in questo modo è stato Dirty
Dancing, che ha venduto centomila
biglietti in due mesi. Le survey non saranno affidabili al 100%, però
un’indicazione te la danno.
Non teme un effetto “buco nell’acqua”?
Il fatto che Footloose sia stato
prodotto nel 2005 da Maria De Filippi – con altri criteri – non mi preoccupa
per nulla, perché ormai i milioni di euro che Stage ha investito nel mercato
italiano, hanno in qualche modo identificato il Teatro Nazionale come “il
tempio del musical”: le persone vengono qui per vedere uno show di qualità.
Dunque, una nuova produzione Stage,
presentata in apertura di stagione, con le caratteristiche di qualità
che il pubblico si aspetta, mi fa stare tranquillo. Non è assolutamente un
titolo innovativo, come ad esempio Next to Normal, che è un bellissimo
spettacolo, ma io qui non riuscirei a tenerlo tre giorni, perché non lo conosce
nessuno. Io non posso seguire la “pancia del produttore”, io devo seguire il
mercato, il quale mi chiede titoli conosciuti, con musiche altrettanto note al
pubblico.
Sì, ma non perché gli anni
Ottanta siano tornati di moda. Va considerato che, negli ultimi quattro anni,
il 30% in media del pubblico che è entrato nella nostra sala per assistere a
una produzione Stage Entarteinment, non è mai stato in teatro. Il pubblico del
musical è femminile, dai 35 ai 55 anni, ha vissuto quel periodo da adolescente e quindi se lo porta nel cuore.
Commenti
Posta un commento