IL PRATO, GLI AMANTI E IL SOGNO





Si moltiplicano anche questa estate gli spazi per vivere il teatro durante il periodo vacanziero per antonomasia, e se Roma conferma per il quindicesimo anno consecutivo l’interessante cartellone shakespeariano del Globe Theatre di Villa Borghese con la direzione artistica di Gigi Proietti, Torino risponde con il Prato Inglese al Teatro Carignano, due capolavori del bardo messi in scena in alternanza dal Teatro Stabile col medesimo cast di giovani promettenti guidati da altrettanto giovani registi, col particolare rivestimento di parte della platea che trasforma il celebre salotto torinese in una fresca distesa d’erba che pare pronta per un pic-nic.
Romeo e Giulietta presenta una messa in scena moderna e minimalista, con un trabattello che diventa il mitico balcone della ancora più mitica scena e una recitazione spogliata di ogni affettazione e birignao per presentare un gruppo di giovani dediti al ‘cazzeggio’ più libero, alla chiacchera più leggera (notevole nella sua ebrezza affabulatoria il Mercuzio di Angelo Tronca) e scivolano nel dramma della violenza e della morte con incredulità e incoscienza. Notevoli anche le prove della Balia, a cui Giorgia Cipolla regala profumi di Sicilia e una irresistibile comicità sanguigna, e di Christian Di Filippo (Benvolio), che trova una dimensione viva e intrigante a un personaggio solitamente schiacciato tra Romeo e Mercuzio.



Altrettanto credibili per intensità ed età scenica i protagonisti: l’entusiasta Marcello Spinetta (Romeo) e la appassionata Beatrice Vecchione (Giulietta), che non si adagiano sui triti cliché degli amanti contrastati ma forniscono, grazie alla spigliata regia (e adattamento) di Marco Lorenzi, una rilettura affatto imbambolata e polverosa del fin troppo frequentato intreccio narrativo. Approccio registico teso a svecchiare e a trasgredire la legge delle aspettative che si rivela qua e là lievemente forzato, come quando ci presenta il Frate Lorenzo di Raffaele Musella intento a rollarsi una canna mentre magnifica i benefici effetti delle erbe. O come quando ci si affida alla abusata amplificazione con microfoni gelato, nel tentativo di circoscrivere con effetto straniante certi passaggi iconici che avremmo apprezzato maggiormente nella versione canonica, visto che troppo spesso la più grande innovazione drammaturgica sembra ormai essere la normalità.   


Più ricco di suggestioni open-air l’allestimento di Sogno di una notte di mezza estate, con una fontana zampillante in mezzo al prato ed effetti sonori e luminosi che proiettano lo spettatore nel magico bosco delle fate. Ben delineati i tre piani che compongono la commedia: i giovani amanti ateniesi (i brillantissimi Marcello Spinetta, Christian Di Filippo, Barbara Mazzi e Annamaria Troisi a loro agio in un meccanismo comico impegnativo quanto oliato), le cui naturali reciproche attrazioni vengono sconvolte dal filtro con cui il dispettoso folletto Robin/Puck si diverte a scompaginare il quadrilatero amoroso, creando sempre nuove combinazioni non corrisposte in attesa del finale ritorno all’armonia; le schermaglie fatate e fatali di Oberon e Titania (Vittorio Camarota e Beatrice Vecchione, che dimostra la sua duttilità in un ruolo opposto a quello di Giulietta) che spingeranno quest’ultima tra le braccia di un uomo-asino; infine la comicità metateatrale dei guitti Nick Bottom e Peter Quince (Angelo Tronca e Yuri D’Agostino, che strappano risate e applausi a scena aperta con una performance comica a metà tra l’improvvisazione e il cabaret), che invece di narrare di Piramo e Tisbe nell’adattamento della regista Elena Serra aspirano a una messa in scena di Romeo e Giulietta in un gioco di rimandi alla stessa doppia produzione del Prato Inglese.
Nel fuoco di fila delle invasioni di campo tra i vari mondi paralleli (il filtro che Oberon aveva destinato all’umiliazione di Titania orchestra anche la trama degli amanti, e l’asino di cui si innamora Titania altro non è che Bottom mascherato) e nelle suggestioni magiche, nel gioco teatrale portato all’estremo, nell’ambientazione fiabesca in cui il confine tra finzione e realtà, vita e sogno, scherzo e serietà è tanto labile quanto è dolce per lo spettatore abbandonarvisi, non è difficile scorgere la chiave della durevole fortuna e del fascino eterno di questo testo, ancora più godibile, perché imprevedibile e sorprendente, dell’altro immortale testo shakespeariano che condivide lo stesso palco nella interessante rassegna torinese. 

Franco Travaglio

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