TURANDOT, AL REGIO L’INTRIGANTE ENIGMA FANTASY FIRMATO BERNÀCER E PODA.
TURANDOT, AL REGIO L’INTRIGANTE ENIGMA FANTASY FIRMATO BERNÀCER E PODA.
Sarà per l’esotismo da cineserie o per un certo gusto fantasy e fiabesco, ma Turandot si presta più di altre opere ad allestimenti kitsch. Per questo si fa apprezzare particolarmente l’allestimento in scena al Teatro Regio di Torino, a cura – per tutti gli aspetti registici e visivi – di Stefano Poda, che incastona l’allestimento, di rara pulizia, eleganza ed equilibrio lineare, in una quadratura monocroma, raramente interrotta da rari sprazzi di colore, come il rosso della gonna della protagonista, e impreziosita da varia attrezzeria dal fascino simbolico: sfere, caschi, lance, archi e frecce. Ma l’elemento più dirompente, innovativo e caratterizzante di questo allestimento è senz’altro l’apparato coreografico, sempre firmato da Poda, che impegna il validissimo ensemble di ballerini in configurazione laocoontiche, difficili movimenti a canone, vere e proprie sculture umane di candidi corpi nudi a sottolineare la magmatica partitura pucciniana ed esaltarne la modernità.
Ci sorprendiamo a innamorarci, come fosse la prima volta, dalle ammalianti note della Turandot, che come le sirene di Ulisse ci trascinano in un mondo altro: ecco perché possiamo parlare pienamente di fantasy. Al posto di un armadio magico, di un binario fatato, di un anello dai poteri sovrannaturali, la musica di Puccini ci trasporta sin dalle prime, struggenti note, in una Cina fantastica, un crudele regno in cui l’amore si paga con la morte, in cui per ottenere la mano di una perfida principessa imperiale bisogna risolvere tre impossibili enigmi. Ci riuscirà il principe Calaf, che ribalterà il gioco degli indovinelli offrendo alla riluttante promessa la possibilità di evitare il matrimonio scoprendo il proprio nome.
Il pericoloso gioco d’amore avrà una vittima sacrificale: la sua fedele e innamorata schiava Liù rifiuterà di rivelare il nome del principe e pagherà con la vita la sua devozione. Lo stesso Puccini riteneva l’intenso coro funebre in suo onore la migliore conclusione del dramma, anche se in alcune versione si preferisce un finale spurio con le nozze dei protagonisti.
Melodramma di amore, morte ed enigmi quindi, ma l’enigma più inestricabile ce lo lancia il compositore, immergendoci in sonorità che ci avvincono e ci lasciano interdetti per come l’estasi estetica si sposa all’efficacia drammaturgica. Non manca il dispiegarsi potente della melodia, come nella celeberrima Nessun dorma, ma è nei momenti meno noti e più rarefatti che si dischiude la meraviglia, come in un prezioso scrigno.
Così come non mancano, nella tavolozza dei toni scenici, la comicità cinica dei tre ministri Ping, Pang e Pong (i bravi Simone Del Savio, Manuel Pierattelli e Alessandro Lanzi), che questa regia mostra indaffarati a imbalsamare i defunti pretendenti falliti, in una scena dal gelido humour inglese.
Ottimo tutto il cast, con punte di emozione e acclamazione per il pathos e la voce cristallina della Liù di Giuliana Gianfaldoni, come per la potenza solo un po’ tetragona di Mikheil Sheshaberidze (Calaf), e la malia dell’algida Turandot di Ingela Brimberg. Convincente come sempre l’orchestra del Regio, sotto la guida del piglio brioso e appassionato della bacchetta dello spagnolo Jordi Bernàcer.
Insomma un’edizione fresca, innovativa, in cui il coraggio e il gusto delle scelte artistiche non va a discapito della coerenza e del rispetto nei confronti dell’opera e della partitura, troppo spesso sacrificati sull’altare dell’originalità a tutti i costi.
Franco Travaglio
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