giovedì 29 settembre 2016

A Milano è tempo di "Footloose"





Ha debuttato al Teatro Nazionale di Milano il musical Footloose, la nuova produzione firmata Stage Entertainment, che riprende a produrre spettacoli in Italia dopo alcune stagioni, puntando su un titolo sicuro,  realizzato – come musical – successivamente alla pellicola degli anni Ottanta, che ha lanciato un allora esordiente Kevin Bacon.
Il musical è ambientato a Bomont, un piccolo paese della provincia americana. Qui predica un pastore protestante, che ha bandito la musica rock, il ballo ed alcuni tipi di letture perché a suo dire -  e di parte della cittadinanza adulta - corrompono la  moralità. La vera ragione di tale accanimento risale a pochi anni prima, quando alcuni ragazzi, tra cui il figlio del pastore, hanno perso la vita in un incidente stradale, mentre rientravano da un concerto.

L’adattamento per il palcoscenico realizzato dallo sceneggiatore della pellicola originale, Dean Pitchford, insieme a Walter Bobbie, pur mantenendo pressoché inalterati personaggi e situazioni, risulta profondamente diverso rispetto al film, anche solo per il fatto di contenere più canzoni – coinvolgenti e di facile ascolto – che seguitano, però, a “fare da colonna sonora”, senza necessariamente essere funzionali a ciò che viene raccontato sul palcoscenico.
In questo senso, il lavoro di traduzione e adattamento del testo e delle liriche in italiano, compiuto da Franco Travaglio, è risultato impegnativo, ma ha dato i suoi frutti, talvolta davvero spassosi; come nel caso della canzone La mamma dice…, in cui il rozzo e ingenuo Willard espone all’irrefrenabile Ren la propria filosofia di vita, basata sui consigli dispensati dalla propria madre.
Apprezzabile - con qualche riserva - la scelta di mantenere in parte in lingua originale le hit più conosciute del film (Footloose, Holding Out for a Hero). 

Chiara Noschese, in qualità di responsabile casting e supervisore artistico, ha radunato per questo spettacolo un nutrito cast di professionisti – giovani e adulti – impegnati a dare il meglio. E l’obiettivo non è lontano dall’essere raggiunto.


Beatrice Baldaccini e Riccardo Sinisi

Riccardo Sinisi, al suo primo ruolo da protagonista, non delude, nel complesso, le aspettative. Il suo Ren McCormack è forse leggermente più “casual” rispetto all’omologo cinematografico, ma dona al suo personaggio una determinata vitalità derivante dalla delusione e dalla conseguente voglia di lottare per affermarsi come individuo.
Smessi i panni delle varie Cenerentola e Sandy, Beatrice Baldaccini interpreta Ariel, la figlia del pastore, rivelando al pubblico aspetti interpretativi inediti: un anelito di ribellione all’autorità e alle convenzioni di genere, sempre conservando quel pizzico di candore che, anche in questo contesto, non guasta. E non passa inosservata la sua interpretazione accanto a Brunella Platania (la moglie del Reverendo Moore, interprete capace, che mette il suo bagaglio esperienziale al servizio del suo personaggio, n.d.r. ) e Loredana Fadda (la madre di Ren) della canzone Meglio stare zitta; sentendo le tre performer cantare, ci si rende conto che non è certamente un consiglio da cogliere alla lettera!
Per Antonello Angiolillo interpretare ruoli adulti “ispirati”, o uomini in crisi con la moglie e in difficoltà con i figli è ormai quella che si dice “una passeggiata di salute”. Il suo Reverendo Moore, uomo in crisi, attanagliato dal dolore per la perdita di un figlio, si aggrappa a Dio, senza cercarlo nelle altre persone, rischiando così di perdere gli affetti a lui rimasti. 

Sono da citare anche gli altri ruoli adulti: Floriana Monici, che in questo spettacolo ricopre più ruoli, ma soprattutto con il personaggio di Betty Blast sembra tornare indietro di qualche anno, quando era accanto a  Fonzie nella versione italiana di Happy Days), Alessandro Parise e Roberto Colombo. 

Quello che fa, lo fa bene: Renato Tognocchi si fa nuovamente notare  - a pochi mesi dall’esperienza nel musical Fame - nel ruolo di Chuck Cranston, il ragazzo che nessun padre vorrebbe vedere, accanto alla propria figlia.

Giulia Fabbri, nel ruolo di Rusty, sfoggia molta di quella grinta che aveva abbastanza tenuto da parte interpretando la giovane giornalista di Newsies; suo il compito di affrontare – interamente in inglese – una hit memorabile come Let’s Hear it for the Boy.

Giulio Benvenuti interpreta un convincente, anche se – a tratti – troppo “esasperato” Willard Hewitt, il personaggio che è un po’ la “mascotte “ dello spettacolo; la già citata La mamma dice… è un inconfondibile e indimenticabile “biglietto da visita”.

L’orchestra dal vivo è diretta da Andrea Calandrini. Scene, costumi e luci (queste ultime, di particolare impatto visivo sulle note di Holding Out for a Hero, e non se ne comprende la ragione, n.d.r.) confermano lo standard qualitativo delle produzioni targate Stage Entertainment. 

Repliche fino al 31 dicembre a Milano, poi a Lugano (Svizzera) dal 20 al 22 gennaio 2017.

Beatrice Baldaccini (Ariel) e Riccardo Sinisi (Ren)

venerdì 16 settembre 2016

Matteo Forte: "Vi presento la Stage 2.0"

MILANO - Matteo Forte, amministratore delegato di Stage Italia, illustra lo sviluppo della strategia aziendale del colosso mondiale del  live entertainment, fondato dall’olandese Joop van den Ende; e, tra indiscutibili successi – con qualche errore commesso -  e nuovi progetti, espone il suo punto di vista (di operatore privato) sul sistema di finanziamento pubblico alla cultura nel nostro Paese.

Matteo Forte, AD Stage Entertainment Italia
Ci racconti come Stage Entertainment ha iniziato la sua avventura in Italia.
Nel 2007 abbiamo rilevato il Teatro Nazionale di Milano, iniziando i lavori di ristrutturazione, con l’obiettivo di importare in Italia il modello esistente negli altri paesi europei: musical che prevedessero grandi investimenti a livello produttivo e il tentativo di collaudare in Italia la lunga tenitura, ovvero la permanenza nei nostri teatri di uno stesso spettacolo per l’intera stagione. Abbiamo iniziato con La Bella e la Bestia, nel 2009, lo spettacolo è andato molto bene a livello commerciale: sono stati venduti oltre 300 mila biglietti, con un incasso superiore ai sedici milioni di euro.  Tuttavia, i costi di gestione dello spettacolo risultavano più alti di questo incasso straordinario; abbiamo dunque provato a spostare la produzione, nel 2010, da Milano a Roma, per essere presenti sui due principali mercati di riferimento italiani e poi per poter “spalmare” i costi di allestimento dello spettacolo su due stagioni. Ci siamo così resi conto che Roma, a differenza di Milano, era un mercato molto meno ricettivo, rispetto al musical di qualità: il pubblico romano è molto più affezionato agli interpreti e a spettacoli legati alla tradizione della città.
Questi primi due anni sono stati indicativi del fatto che la “cultura del musical” in Italia andasse dovesse essere largamente sviluppata.
L’anno successivo, spostando Mamma Mia! da Milano a Roma, ci siamo accorti che il risultato era peggiorato rispetto a La Bella e La Bestia, e abbiamo preso la decisione drastica di concentrare tutte le attività su Milano. Al termine dei quattro mesi di tenitura de La febbre del sabato sera, decidiamo di cambiare completamente il nostro modello di business: produrre allestimenti di alta qualità, senza spendere dieci volte quello che spende un produttore italiano medio, ma magari solo il doppio o tre volte tanto. Abbiamo iniziato a utilizzare il teatro anche in altro modo, ospitando altri spettacoli oltre alle nostre produzioni e cercando uno sponsor che volesse essere visibile sul mercato e, d’altra parte, ci aiutasse in termini economici: la visibilità che Barclays ha avuto all’interno del Teatro Nazionale ha aperto la strada a molte altre aziende che ci hanno chiesto spontaneamente di poter essere visibili all’interno di questo luogo.
  
Questo “nuovo” modello di business viene utilizzato nei teatri Stage Entertainment di tutto il mondo?
No. Tant’è che la nostra multinazionale è sempre stata concentrata sulle attività di produzione e vendita degli spettacoli. Questo fino a luglio 2015, quando Stage Entertainment è stata acquistata per il 60% da un fondo d’investimento. Il restante 40% è ancora nelle mani di Joop Van Den Ende, fondatore e presidente, la cui “missione personale” era quella di realizzare spettacoli “top quality, senza “contaminarli” con nessun altro marchio, rendendo i teatri luoghi davvero speciali.
Devo dire che l’entrata del fondo d’investimento è stata – da un punto di vista organizzativo – davvero efficace, perché le persone che ci lavorano sono chiaramente molto orientate al profitto e alla strategia aziendale, un po’ meno legate alla parte creativa.
Il modello Stage attualmente presente in Italia (produzioni più piccole, con una tenitura massima di quattro mesi; l’utilizzo del teatro come luogo per le aziende nel quale comunicare; un dipartimento dedicato a eventi aziendali non convenzionali) funziona, tanto da rappresentare il punto di riferimento a livello internazionale per tutte quelle attività di sponsorizzazione e che sono”altro” rispetto alle competenze più specificamente teatrali. Stiamo cercando di convertire alcuni dei nostri teatri nel mondo su questo modello.

Cosa nello specifico ha funzionato meno negli anni scorsi, tanto da indurre Stage Italia a cambiare strategia?
L’errore che non abbiamo riconosciuto di aver fatto nel corso dei primi tre anni è stato quello di investire troppi soldi negli spettacoli. Io ho visto quest’anno diverse produzioni ben fatte, l’ultima è Jersey Boys. Una produzione realizzata evidentemente con un budget che, a confronto con quello de La Bella e la Bestia, è molto più basso. Eppure si tratta di un buon titolo, prodotto in maniera ottimale. L’errore di Stage, dunque, è stato quello di doversi confrontare con un mercato che produce a basso costo, avendo lo stesso bacino di riferimento, ma con un punto di rientro dell’investimento che è molto più alto rispetto a chiunque altro.
Ci tengo a dire che Stage Entertainment non fa niente di particolarmente innovativo o geniale: facciamo quello che nelle aziende viene fatto regolarmente, ogni giorno. Probabilmente quello che facciamo di diverso da altri operatori è mettere insieme competenze che provengono da realtà aziendali, coniugandole con il mondo del teatro e della cultura. Il risultato è che il Barclays Nazionale è un teatro che non riceve finanziamenti pubblici, mantenendo comunque il proprio utile, e forse si tratta dell’unico caso in Italia.

Qual è la sua opinione in qualità di manager su quanto ha appena affermato?
Il modello dei finanziamenti dovrebbe essere completamente rivoluzionato, perché oggi il Fus premia aziende poco virtuose, che non riescono ad arrivare al breakeven dei costi e li ripiana non per arrivare a un profitto, bensì a un pareggio nelle spese. Un sistema, dunque, che non incentiva per nulla l’iniziativa imprenditoriale che il produttore o il singolo teatro dovrebbero avere. Il teatro è (anche) un’azienda e i conti devono tornare a prescindere dal fatto che il Governo li ripiani.
Se fai l’imprenditore, i soldi te li devi cercare, e non è facile trovarli: se però sei stimolato dal fatto che non solo devi pagare bollette, dipendenti e quant’altro, ma magari anche generare un profitto dalla tua attività, allora ti ingegni – e noi italiani siamo bravissimi a farlo – per trovare il modo di riuscire ad avere sponsorizzazioni. Lo Stato, attraverso il Fus, invece ti dice: se tu mi dimostri che non ce la fai, allora io ti do quello che ti serve. Che modo è di incentivare il merito, questo?

La vedo raggiante per i progetti dei prossimi mesi. Allora parliamo di questo nuovo allestimento di Footloose…
La scelta del titolo è scaturita dalle indagini (survey) che noi compiamo sulla nostra base-clienti. Footloose è risultato primo su dieci titoli che noi abbiamo profondamente scandagliato, dopo averli proposti al nostro pubblico. L’ultimo titolo che abbiamo scelto in questo modo è stato Dirty Dancing, che ha venduto  centomila biglietti in due mesi. Le survey non saranno affidabili al 100%, però un’indicazione te la danno.

Non teme un effetto “buco nell’acqua”?
Il fatto che Footloose sia stato prodotto nel 2005 da Maria De Filippi – con altri criteri – non mi preoccupa per nulla, perché ormai i milioni di euro che Stage ha investito nel mercato italiano, hanno in qualche modo identificato il Teatro Nazionale come “il tempio del musical”: le persone vengono qui per vedere uno show di qualità. Dunque, una nuova produzione Stage,  presentata in apertura di stagione, con le caratteristiche di qualità che il pubblico si aspetta, mi fa stare tranquillo. Non è assolutamente un titolo innovativo, come ad esempio Next to Normal, che è un bellissimo spettacolo, ma io qui non riuscirei a tenerlo tre giorni, perché non lo conosce nessuno. Io non posso seguire la “pancia del produttore”, io devo seguire il mercato, il quale mi chiede titoli conosciuti, con musiche altrettanto note al pubblico.

Quindi, il trend anni Ottanta funziona?
Sì, ma non perché gli anni Ottanta siano tornati di moda. Va considerato che, negli ultimi quattro anni, il 30% in media del pubblico che è entrato nella nostra sala per assistere a una produzione Stage Entarteinment, non è mai stato in teatro. Il pubblico del musical è femminile, dai 35 ai 55 anni, ha vissuto quel periodo da adolescente e quindi se lo porta nel cuore.





giovedì 1 settembre 2016

Il fascino del Titanic abbraccia il Ceresio

Melide, Lugano ( CH )   18 Luglio 2016  - Il fascino del Titanic non ha età.Dal lontano 1912 la sua storia ammalia e corteggia innumerevoli appassionati e storici. A Melide, a pochi passi dal lago di Lugano, la nave del Titanic si appresta a salpare portando lo spettatore verso una serata piacevole, frizzante e con il cuore a mille. All’entrata è evidente l’eccellente organizzazione dello staff che ha preparato anche una zona ristorazione. Lo scenografo Christoph Weyers ha costruito un piccolo gioiello architettonico in cui in pochi metri quadrati sono stati costruiti la buca dell’orchestra, la nave, l’iceberg e il backstage. Unica nota negativa: la poca profondità del palcoscenico costringe tante volte il cast a doversi muovere in spazi molto stretti.Lo spettacolo, costruito dal regista Stanislav Mosa,è un vero fiume in piena, la cui costruzione difficilmente lascia spazio alla noia. Presenta inoltre una doppia traduzione: a serate alterne si canta in lingua italiana, con traduzione di MiranKoluta, oppure in lingua tedesca. Il cast, sempre lo stesso, vede una flessibilità lessicale rara da trovare nelle produzioni europee. Il direttore musicale Gaudens Bieri gestisce la piccola orchestra composta da 12 elementi con flessibilità e massima attenzione. Kate Mc Gowan, interpretata dalla cantante triestina Stefania Seculin, convince sia per la vocalità elastica e calda sia per la pronuncia in lingua tedesca.Bruno Grassini nel ruolo di Thomas Andrews regala a tutto il pubblico presente un turbinio di emozioni, la sua presenza scenica è quasi una calamita per un occhio attento. Il capitano della nave,Andrea Matthias Pagani, uno dei performer più conosciuti dell’area tedesca, colpisce per la decisione con cui conduce il Titanic durante tutta la serata. La presenza sul palco di Andreas De Majoè altalenante:dà il meglio di sé nel secondo atto ed è una voce da tener segnata nei propri appunti e riascoltare. La coppia Straus, interpretata da Isabel Florido e FolkePaulsen, risulta divertente, tecnicamente preparata e con una particolare affinità nel momento in cui la nave affonda. Suor Cristinasi esprime meglio nelle recite in lingua italiana mentre si notano particolari difficoltà con la lingua tedesca. Lo spettacolo regala al pubblico proveniente da tutta la zona centrale dell'europa (Austria - Germania - Svizzera - Repubblica Ceca - Ungheria) uno spettacolo di 2 ore e 45 ricco di colpi di scena e con scenari mozzafiato. Una produzione notevole.