venerdì 16 settembre 2016

Matteo Forte: "Vi presento la Stage 2.0"

MILANO - Matteo Forte, amministratore delegato di Stage Italia, illustra lo sviluppo della strategia aziendale del colosso mondiale del  live entertainment, fondato dall’olandese Joop van den Ende; e, tra indiscutibili successi – con qualche errore commesso -  e nuovi progetti, espone il suo punto di vista (di operatore privato) sul sistema di finanziamento pubblico alla cultura nel nostro Paese.

Matteo Forte, AD Stage Entertainment Italia
Ci racconti come Stage Entertainment ha iniziato la sua avventura in Italia.
Nel 2007 abbiamo rilevato il Teatro Nazionale di Milano, iniziando i lavori di ristrutturazione, con l’obiettivo di importare in Italia il modello esistente negli altri paesi europei: musical che prevedessero grandi investimenti a livello produttivo e il tentativo di collaudare in Italia la lunga tenitura, ovvero la permanenza nei nostri teatri di uno stesso spettacolo per l’intera stagione. Abbiamo iniziato con La Bella e la Bestia, nel 2009, lo spettacolo è andato molto bene a livello commerciale: sono stati venduti oltre 300 mila biglietti, con un incasso superiore ai sedici milioni di euro.  Tuttavia, i costi di gestione dello spettacolo risultavano più alti di questo incasso straordinario; abbiamo dunque provato a spostare la produzione, nel 2010, da Milano a Roma, per essere presenti sui due principali mercati di riferimento italiani e poi per poter “spalmare” i costi di allestimento dello spettacolo su due stagioni. Ci siamo così resi conto che Roma, a differenza di Milano, era un mercato molto meno ricettivo, rispetto al musical di qualità: il pubblico romano è molto più affezionato agli interpreti e a spettacoli legati alla tradizione della città.
Questi primi due anni sono stati indicativi del fatto che la “cultura del musical” in Italia andasse dovesse essere largamente sviluppata.
L’anno successivo, spostando Mamma Mia! da Milano a Roma, ci siamo accorti che il risultato era peggiorato rispetto a La Bella e La Bestia, e abbiamo preso la decisione drastica di concentrare tutte le attività su Milano. Al termine dei quattro mesi di tenitura de La febbre del sabato sera, decidiamo di cambiare completamente il nostro modello di business: produrre allestimenti di alta qualità, senza spendere dieci volte quello che spende un produttore italiano medio, ma magari solo il doppio o tre volte tanto. Abbiamo iniziato a utilizzare il teatro anche in altro modo, ospitando altri spettacoli oltre alle nostre produzioni e cercando uno sponsor che volesse essere visibile sul mercato e, d’altra parte, ci aiutasse in termini economici: la visibilità che Barclays ha avuto all’interno del Teatro Nazionale ha aperto la strada a molte altre aziende che ci hanno chiesto spontaneamente di poter essere visibili all’interno di questo luogo.
  
Questo “nuovo” modello di business viene utilizzato nei teatri Stage Entertainment di tutto il mondo?
No. Tant’è che la nostra multinazionale è sempre stata concentrata sulle attività di produzione e vendita degli spettacoli. Questo fino a luglio 2015, quando Stage Entertainment è stata acquistata per il 60% da un fondo d’investimento. Il restante 40% è ancora nelle mani di Joop Van Den Ende, fondatore e presidente, la cui “missione personale” era quella di realizzare spettacoli “top quality, senza “contaminarli” con nessun altro marchio, rendendo i teatri luoghi davvero speciali.
Devo dire che l’entrata del fondo d’investimento è stata – da un punto di vista organizzativo – davvero efficace, perché le persone che ci lavorano sono chiaramente molto orientate al profitto e alla strategia aziendale, un po’ meno legate alla parte creativa.
Il modello Stage attualmente presente in Italia (produzioni più piccole, con una tenitura massima di quattro mesi; l’utilizzo del teatro come luogo per le aziende nel quale comunicare; un dipartimento dedicato a eventi aziendali non convenzionali) funziona, tanto da rappresentare il punto di riferimento a livello internazionale per tutte quelle attività di sponsorizzazione e che sono”altro” rispetto alle competenze più specificamente teatrali. Stiamo cercando di convertire alcuni dei nostri teatri nel mondo su questo modello.

Cosa nello specifico ha funzionato meno negli anni scorsi, tanto da indurre Stage Italia a cambiare strategia?
L’errore che non abbiamo riconosciuto di aver fatto nel corso dei primi tre anni è stato quello di investire troppi soldi negli spettacoli. Io ho visto quest’anno diverse produzioni ben fatte, l’ultima è Jersey Boys. Una produzione realizzata evidentemente con un budget che, a confronto con quello de La Bella e la Bestia, è molto più basso. Eppure si tratta di un buon titolo, prodotto in maniera ottimale. L’errore di Stage, dunque, è stato quello di doversi confrontare con un mercato che produce a basso costo, avendo lo stesso bacino di riferimento, ma con un punto di rientro dell’investimento che è molto più alto rispetto a chiunque altro.
Ci tengo a dire che Stage Entertainment non fa niente di particolarmente innovativo o geniale: facciamo quello che nelle aziende viene fatto regolarmente, ogni giorno. Probabilmente quello che facciamo di diverso da altri operatori è mettere insieme competenze che provengono da realtà aziendali, coniugandole con il mondo del teatro e della cultura. Il risultato è che il Barclays Nazionale è un teatro che non riceve finanziamenti pubblici, mantenendo comunque il proprio utile, e forse si tratta dell’unico caso in Italia.

Qual è la sua opinione in qualità di manager su quanto ha appena affermato?
Il modello dei finanziamenti dovrebbe essere completamente rivoluzionato, perché oggi il Fus premia aziende poco virtuose, che non riescono ad arrivare al breakeven dei costi e li ripiana non per arrivare a un profitto, bensì a un pareggio nelle spese. Un sistema, dunque, che non incentiva per nulla l’iniziativa imprenditoriale che il produttore o il singolo teatro dovrebbero avere. Il teatro è (anche) un’azienda e i conti devono tornare a prescindere dal fatto che il Governo li ripiani.
Se fai l’imprenditore, i soldi te li devi cercare, e non è facile trovarli: se però sei stimolato dal fatto che non solo devi pagare bollette, dipendenti e quant’altro, ma magari anche generare un profitto dalla tua attività, allora ti ingegni – e noi italiani siamo bravissimi a farlo – per trovare il modo di riuscire ad avere sponsorizzazioni. Lo Stato, attraverso il Fus, invece ti dice: se tu mi dimostri che non ce la fai, allora io ti do quello che ti serve. Che modo è di incentivare il merito, questo?

La vedo raggiante per i progetti dei prossimi mesi. Allora parliamo di questo nuovo allestimento di Footloose…
La scelta del titolo è scaturita dalle indagini (survey) che noi compiamo sulla nostra base-clienti. Footloose è risultato primo su dieci titoli che noi abbiamo profondamente scandagliato, dopo averli proposti al nostro pubblico. L’ultimo titolo che abbiamo scelto in questo modo è stato Dirty Dancing, che ha venduto  centomila biglietti in due mesi. Le survey non saranno affidabili al 100%, però un’indicazione te la danno.

Non teme un effetto “buco nell’acqua”?
Il fatto che Footloose sia stato prodotto nel 2005 da Maria De Filippi – con altri criteri – non mi preoccupa per nulla, perché ormai i milioni di euro che Stage ha investito nel mercato italiano, hanno in qualche modo identificato il Teatro Nazionale come “il tempio del musical”: le persone vengono qui per vedere uno show di qualità. Dunque, una nuova produzione Stage,  presentata in apertura di stagione, con le caratteristiche di qualità che il pubblico si aspetta, mi fa stare tranquillo. Non è assolutamente un titolo innovativo, come ad esempio Next to Normal, che è un bellissimo spettacolo, ma io qui non riuscirei a tenerlo tre giorni, perché non lo conosce nessuno. Io non posso seguire la “pancia del produttore”, io devo seguire il mercato, il quale mi chiede titoli conosciuti, con musiche altrettanto note al pubblico.

Quindi, il trend anni Ottanta funziona?
Sì, ma non perché gli anni Ottanta siano tornati di moda. Va considerato che, negli ultimi quattro anni, il 30% in media del pubblico che è entrato nella nostra sala per assistere a una produzione Stage Entarteinment, non è mai stato in teatro. Il pubblico del musical è femminile, dai 35 ai 55 anni, ha vissuto quel periodo da adolescente e quindi se lo porta nel cuore.





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