BOHÈME, AMORE A PRIMA VISTA
Innamorarsi
perdutamente di un’opera, come se fosse la prima volta, quasi fosse alla prima
assoluta. E invece parliamo della pucciniana Bohème, vista al Regio di Torino
il 20 ottobre 2016 in occasione del centoventesimo anniversario dal debutto,
avvenuto proprio nella culla lirica della capitale sabauda l’1 febbraio 1896.
Merito
in primo luogo della coraggiosa regia di Àlex Ollé, direttamente dal gruppo
teatrale di rottura La Fura dels Baus, che riesce nell’intento di scrostare dal
capolavoro la patina di vecchiume e di sacrale filologia che uno spettacolo
così a lungo replicato, rivisto, reintepretato ha accumulato negli anni. Io
stesso ne avevo viste svariate edizioni: nel 1984 con Fiamma Izzo (la mia prima
volta all’opera e al Regio), nel 1996 l’edizione Pavarotti/Freni del
centenario, nel 2010 con Barbara Frittoli, e nel 2015 il revival zeffirelliano
alla Scala.
La
freschezza di questa produzione è garantita non tanto dalla scelta (sicuramente
non inedita) di ambientare nella periferia di una contemporanea metropoli le
giovani pene d’amore, gioiosa miseria d’artista e povertà esistenziale di Mimì,
Rodolfo, Musetta e Marcello, quanto dall’andamento quasi cinematografico,
realistico e attuale del ritmo registico, che non si scolla mai dalla partitura,
al netto di un paio di incongruenze che non intaccano la riuscita dell’insieme.
Se
nella composizione di un’opera è già scritto l’aspetto visivo della vicenda
scenica tanto più abbiamo apprezzato la capacità di Ollé di farci entrare nei
microcosmi degli appartamentini dei protagonisti, che continuano a vivere anche
mentre l’azione si svolge altrove. La scenografia di Alfons Flores, coadiuvata
dalle bellissime luci di Urs Schönebaum, è infatti composta da una serie di scarne
strutture mobili che ci mostrano, con effetto “finestra sul cortile” gli
interni di altrettante stanze e locali.
La
messa in scena vince quindi la sfida di farci entrare in sintonia con i
personaggi e le loro emozioni, le loro sofferenze, i loro amori (rendere
credibile l’innamoramento di Mimì e Rodolfo, che sboccia in poche battute
musicali, è davvero una sfida per qualsiasi regista), con un sapiente uso del
“primo piano” persino nell’emorme palco del Regio, alternato alla grandiosità
delle scene di insieme. Peculiare il CAFFÈ MOMUS, trasformato in un lounge-bar
radical-chic in cui capiamo sin dall’inizio che i poveri studenti sono
incautamente incappati: chi di voi non si è mai trovato di fronte a un conto
salatissimo lontano dalle proprie tasche, per non far brutta figura con gli
amici?
E’
vincente tutto il team artistico: i costumi di Lluc Castells trasformano
Rodolfo (il bravissimo tenore peruviano Iván Ayón Rivas), in un drammaturgo
nerd che cerca ispirazione sul suo pc portatile, e Mimì (l’applauditissima Erika
Grimaldi) in una giovane colpita dalla tisi dei giorni nostri, il tumore. Marcello
(il versatile Simone del Savio) è invece un graffittaro squatter innamorato
della ragazza di mondo Musetta (la talentuosa Francesca Sassu), che smessi i
panni della volubile vamp mostra tutta la sua umanità aiutando Mimì, mentre Schaunard
(Benjamin Cho) è un chitarrista burlone dalla risata contagiosa e la cresta da
ventenne di oggi.
Impossibile
per gli appassionati di musical non pensare alla rock-opera RENT, riscrittura
della Bohème nella New York alla fine del ventesimo secolo, e questa edizione è
un po’ un RENT riportato alla musica originale, tanto che ti aspetteresti di
sentire i protagonisti, tutti giovani e credibili, cantare un rock indiavolato
o un rap grintoso, invece quando aprono bocca per fortuna escono le magiche
note pucciniane, che nella spigliata e attenta direzione di Gianandrea Noseda,
sortiscono un intrigante effetto spiazzante che fa da detonatore all’eterna
modernità dell’opera. Un’amore
a prima vista.
Franco Travaglio
Foto del primo cast. Ramella&Giannese - Edoardo Piva
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